Tuglie...per raccontar paese...
 
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Nel giorno di S. Giuseppe, tavole imbandite, falò e dolci tipici
In Italia è consuetudine preparare a Marzo particolari dolci nei giorni a ridosso del 19 marzo, festa di San Giuseppe, ma anche festa del Papà. In particolare il dolce di questa festa è la zeppola un dolce tipico della tradizione pasticcera italiana che è preparato con modalità leggermente diverse nelle varie regioni. In Italia meridionale è un dolce tipico della festa di San Giuseppe ed è perciò detta zeppola di San Giuseppe. nel Salento le zeppole vengono preparate per la festa di San Giuseppe e in alcuni paesi dove si preparano le tradizionali “Tavole di San Giuseppe” vengono utilizzate come ultima pietanza, per dolce. Sebbene negli ultimi anni si sia affermato l’uso di friggere la pasta della zeppola anche usando olio di oliva, la vera zeppola salentina viene fritta nello strutto, detto sugna nel dialetto locale. Nella penisola salentina vengono preparate con acqua, strutto, sale, farina, limone grattugiato e uova, fritte o al forno e decorate con crema pasticcera e crema al cioccolato, oppure due o tre amarene sciroppate. La zeppola fa parte della pasticceria leccese ed è presente tutto l’anno, con una maggiore produzione nel periodo della festa di san Giuseppe. Tra le varianti preparate in casa vi sono zeppole intrecciate a forma di “elle” minuscola, fritte e passate ancora calde nello zucchero. Queste zeppole non hanno tipicamente la crema. Oggi nel giorno di S. Giuseppe in vari paesi del Salento c’è un falò, il più grande è rinomato a S. Marzano di S. Giuseppe. Le tipiche tavolate di S. Giuseppe, nei paesi intorno ad Otranto, tutto inizia nel periodo precedente la festa, cioè tra la fine di febbraio e la prima metà di marzo, quando alcune famiglie devote preparano del pane o una pasta tradizionale la “massa e ciciri” o entrambe, per distribuirli a tutti coloro che si presentano a casa. È un rito antico, quello della massa: la preparazione, soprattutto molti anni fa, avveniva al ritmo della preghiera (si lasciava cuocere al tempo di un Pater Noster, si lasciava riposare nei Limmi recipienti tradizionali in terracotta, il tempo di 10 Ave Maria e via); la distribuzione seguiva la recita del rosario, quasi a voler “santificare” la fatica compiuta con la preghiera.
La tradizione impone alla famiglia devota di non mangiare ciò che ha distribuito se non le rimanenze: in sostanza sono banditi atteggiamenti del tipo “ne metto un po’ da parte” o “ne lascio un po’ per tizio o caio”. Una forma ancora più forte di devozione spinge alcune famiglie (per grazia ricevuta o come segno di propiziazione) a preparare, il giorno della festa, le Tavole di San Giuseppe (“Taule te San Ciseppe”): vere e proprie tavole imbandite e preparate secondo regole precise. Innanzitutto i commensali: anticamente erano scelti tra i poveri del paese, oggi si scelgono parenti e amici, preferibilmente tra coloro che hanno maggior bisogno o hanno una famiglia numerosa. Il numero minimo di partecipanti è di tre San Giuseppe, Maria e Gesù a cui si aggiungono altre “coppie di santi” fino al massimo di tredici persone (numero che richiama i componenti dell’ultima cena). La Taula può essere cotta, cioè formata da 13 pietanze per ciascun santo, tra cui: la massa e ciciri, verdura lessa, pasta col miele e la mollica di pane, pesce fritto, crema di fave (le favenette) con pane fritto; questa forma di preparazione era molto diffusa quando le famiglie erano tutte abbastanza numerose e la povertà era forte: in una situazione del genere, fare il santo ad una tavola significava una benedizione. Oggi, migliorate in genere le condizioni di vita e ridotto il numero di componenti delle famiglie, si è diffusa l’abitudine di mettere in tavola solo alcune pietanze simboliche (i lampascioni, il pesce fritto, la zeppola e la frutta) e comprare quello che si preferisce lasciandolo crudo, perché lo si possa consumare in seguito. Tuttavia, nell’immaginario collettivo, la forma massima di devozione, per la notevole fatica a cui si incorre, consiste nella preparazione della Taula tutta cotta, specialmente se composta dal numero massimo dei santi (13): essa impone, infatti, la preparazione di 169 piatti (13 pietanze per 13 santi). Non mancano in nessuna tavola i tradizionali Tòrtini dei pani a forma di ciambella del peso di 5 o 3 chili e, al centro, ben in vista, un’effige di San Giuseppe o della Santa Famiglia; accanto alla sedia del commensale che avrà la “parte” di San Giuseppe, poi, si trova un bastone con posti alla cima dei fiori bianchi a ricordo del miracolo che, secondo la leggenda, avrebbe consentito di individuare Giuseppe quale sposo della Vergine.

Il giorno della festa, dopo aver partecipato alla messa, i santi si recano nelle case dove sono attesi: di lì a poco passerà il sacerdote per la benedizione, dopo la quale gli invitati si siederanno a tavola e inizieranno a mangiare. Tuttavia, sarà sempre San Giuseppe a “governare” la situazione: a lui spetta decidere quando si smette di mangiare ogni pietanza battendo tre volte la forchetta sul bordo del suo piatto. A questo segnale tutti gli altri santi devono smettere di mangiare e passare alla pietanza successiva, servita dai componenti della famiglia devota. Alla fine del pranzo, dopo un breve momento di preghiera, i santi portano via con sè tutto ciò che è rimasto e, se la Taula è cruda, quello che è stato loro destinato senza dimenticarsi di non ringraziare i devoti, ma, al limite, di pregare San Giuseppe di esaudire i loro desideri e aspirazioni. Il senso di un rituale che può sembrare complesso e astruso sta nella volontà di sviluppare il senso della “condivisione” in tutti coloro che, in un modo o nell’altro, perché devoti o invitati, partecipano alla Taula, ricordandosi che ciò che si ha diviso e condiviso, avendo in mente la preghiera che caratterizza tutto il tempo della festa.
 
  Raimondo Rodia

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